Sono arrivata a leggere “Storia di una ladra di libri” senza aver
visto il film ma, avendo dato un’occhiata alle varie recensioni; ad essere sincera mi aspettavo
un libro che mi prendesse dalla prima all'ultima pagina, tenendomi incollata
fino alla fine.
Purtroppo non è stato così: sono dovuta arrivare quasi a metà delle oltre
500 pagine per entrare appieno nella vicenda e iniziare ad apprezzare l’opera. L’autore
– di cui avevo già letto “Io sono il messaggero” – utilizza uno stile molto particolare,
inframezzando il testo con parti graficamente slegate che rappresentano
anticipazioni, riassunti, precisazioni su quanto viene raccontato, spezzando la
fluidità della storia.
L’originalità dello spunto, è infatti la Morte il personaggio narrante,
viene a mio giudizio compromesso da questo accorgimento sintattico che
frammenta troppo la lettura.
La storia in sé, tuttavia, mi è piaciuta: la protagonista Lisel,
l’amico Rudy, i genitori adottivi, l’ebreo fuggitivo Max vivono (e convivono)
nella Germania nazista che viene raccontata anche nelle sue sfaccettature
drammatiche proprio dalla voce della Morte che – in tono ironico – spesso si
lamenta di aver avuto un gran daffare in quel periodo storico.
Il libro, in origine pubblicato con il titolo “La bambina che salvava
i libri”, rappresenta una piacevole lettura una volta metabolizzato lo stile
dell’autore e merita di essere letto sia per la possibilità che offre di
ripercorrere una parte del recente passato sia per riflettere sull'importanza della scrittura e delle parole.
«Poco dopo non ci furono che
brandelli di parole sparsi fra le sue gambe e tutto in torno a lei. Le parole.
Perché dovevano esserci delle parole? Senza parole, nulla sarebbe esistito:
senza parole non ci sarebbero stati il Führer, né prigionieri zoppicanti,
nessun bisogno di conforto o giochi di prestigio per farci sentire meglio. Che
bene facevano le parole?»
Irene Milani
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